Se riuscissimo a salire tanto in alto da poter abbracciare l’Universo, vedremmo un enorme splendida Stella che si espande nello spazio, su onde vibranti di luce: 7 luminosissimi raggi colorati, ognuno dei quali risuona una nota, un gioiello di incomparabile bellezza, sull’oscuro velluto dell’etere.
Dal punto più vicino al cuore della Stella, fino a quello più lontano, si manifesta un numero indefinito di esseri, tra questi l’essere umano: esso può trovarsi una delle 7 scie luminose, intonato così, ad uno dei 7 suoni di quell’unica melodia. Ogni raggio emanerà una nota; saranno tutti gli esseri in esso compresi a suonarla. Ogni essere umano è una corda vibrante, ma solo risuonando la sua nota egli entrerà in accordo con le altre e con sé stesso.
Ogni cosa che vive, vibra! Ma per essere in armonia con la vita, bisogna saper vibrare. Molto probabilmente non abbiamo ancora scoperto il nostro giusto ruolo, nell’ordine generale delle cose, il nostro posto nell’orchestra cosmica: la nostra nota, la nostra vocazione.
Vocazione significa chiamata, e l’individuo è chiamato ad incarnare e vivere una certa possibilità.
Come una cellula dell’organismo, egli deve adempiere ad un suo preciso compito, nell’ordine universale. Ha il suo dharma, come viene chiamato dall’Oriente. Non rispondere vuol dire conflitti a non finire. Rimanere sordi e muti vuol dire tradire sé stessi e la vita. Vuol dire sottrarsi ad un contributo di amore, di compartecipazione.
Insoddisfazione, frustrazioni, senso di aridità, di inutilità sono i compagni inseparabili di colui che nasce e muore senza essersi acceso, senza aver mai brillato: come un fuoco che non arde, un fiore che non sboccia, una notte che non vede l’alba.
Questo chiudersi, questo non conformarsi con la natura degli esseri, questa rottura di armonia è Adharma: è la cellula impazzita che in un organismo vivente abolisce ogni ordine, e iniziando rapidissime e disordinate divisioni viene a formare un tumore.
Ma allora se sottrarsi al proprio Dharma significa dolore, significa morte, perché non tentiamo di uniformarci ad esso, perché non ascoltiamo e seguiamo la nostra natura? Cominciamo innanzitutto a chiederci quale potrebbe essere la nostra vocazione: il nostro posto nel contesto universale, il compito al quale siamo chiamati.
Rivolgiamoci alla parte più interna di noi stessi e la risposta giungerà, non può essere altrimenti. Quel giorno finalmente scopriremo la nostra vocazione, quel giorno segnerà una data storica per noi, un passo decisivo, un riorientamento verso la giusta direzione. Allora non ci sarà altro da fare che muovere i primi passi.
Abbiamo parlato più avanti di 7 note, 7 colori, 7 raggi cosmici. Ma ad una maggiore altezza vedremo, il 7 ridursi a 3.
3 raggi fondamentali, 3 qualità psichiche: volontà, amore, intelligenza.
Scoperta la nostra vocazione non ci resta che vibrare di conseguenza. Ma che cosa significa saper vibrare? Semplicemente essere! Non c’è sforzo, tensione in tutto questo, ma naturale e spontanea irradiazione.
Realizzare la propria vocazione implica quindi: scoprirla, neutralizzare le forze inerziali che impediscono il suo svelamento, vibrare. Sono soltanto tre punti.
L’Universo abbiamo visto manifesta amore, questa qualità costituisce la sua nota, il suo dharma, la sua vocazione: il sottofondo su cui si intrecciano i suoni cosmici. È ovvio che in ogni essere pulsa questa energia, anche se essa e dominante in coloro che appartengono al secondo raggio.
Possiamo dire quindi che esiste una vocazione comune a tutti gli esseri: ma qual è in fondo il moto dell’amore?
Consideriamo per un attimo la funzione del Sole. Questo potente magnete, questo cuore pulsante non fa altro che attrarre a sé –inclusione-, e irradiare –donazione-. Il moto dell’amore può essere assimilato senza dubbio a quello del Sole.
Includere vuol dire non contrapporsi più a niente, donarsi significa morire a sé stessi.
Dice il Vangelo: “Io sono la Vite, voi i tralci, chi rimane in Me ed Io in lui quegli porta frutto di molto, perché senza di Me voi non potete fare nulla” (Giovanni 15,5)
Scoperta la propria vocazione, trovata la propria strada non significa percorrerla su petali di rose: tutt’altro. Ma una cosa è certa: la strada è quella, il dharma è quello, nient’altro ha importanza che andare avanti.